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Respinti e salvati

 

 I SALVATI  E I RESPINTI

Sulla falsa riga dell’ultimo lavoro di Primo Levi, pubblicato nel 1986, col titolo I sommersi e i salvati, in occasione del GIORNO DELLA MEMORIA, ricorderemo coloro che durante la seconda guerra mondiale bussarono alle porte della Svizzera, ricevendo, per circostanze diverse, accoglienza e rifiuti. Né più né meno di quello che capita ancor oggi nei confronti degli immigrati che approdano alle nostre coste. La Svizzera qualche buon motivo per dire no ce l’aveva, non ultimo il timore di poter essere facile preda del terzo reich in barba alla sua conclamata neutralità. È una studiosa elvetica di prim’ordine, Renata Broggini, a ricordarcelo in un’opera divenuta ormai una sorta di bibbia di riferimento «La frontiera della speranza». Non meno preziosa la ricostruzione storica di questo travagliato periodo del ricercatore varesino, Francesco Scomazzon, nel suo libro «Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!» Titoli che la dicono lunga sulle incerte aspettative di chi fuggiva da un regime disumano  per aver salva la vita. E proprio la nostra zona fu teatro di un esodo che, in alcuni casi, si trasformò in vera e propria tragedia. I più colpiti dal refoulement (respingimento) furono gli Ebrei perché si tendeva a sottovalutare la drammaticità della loro situazione. Un ruolo importante lo ebbero i contrabbandieri che conoscevano fin troppo bene i sentieri tra i boschi, persone che in genere si accontentavano di un’adeguata ricompensa, ma che talvolta giocavano su doppi tavoli, disposti per il vil denaro a consegnare le loro vittime nelle mani delle SS. La decisione di respingere i profughi alla frontiera svizzera più volte presa e revocata dalla Confederazione aveva lo scopo di scoraggiare ingressi che si annunciavano sempre più numerosi. La sorte dei respinti, che nella maggior parte dei casi vennero arrestati dai nazifascisti nelle immediate vicinanze del confine, ha lasciato uno strascico di interrogativi nella coscienza di molti Svizzeri.
I SALVATI

Di fronte allo spettacolo dei profughi ricacciati al di là del confine, presero ad esempio posizione le donne di Ponte Tresa che così scrivevano al presidente della Confederazione Enrico Celio: «Come faranno a cavarsela ora che i tedeschi sono al confine? Non si potrebbe revocare l’ordine perlomeno per quei poveretti che sono già qui e che certamente non saranno molti? Ė vero, in questi momenti che tutto il mondo è in rovina non bisognerebbe lasciar parlare il cuore, ma l’assicuriamo Onorevole che se anche Lei fosse qui, non potrebbe assistere senza un senso di sgomento e di spavento per la fine forse riservata a questi poveretti»

UN ESODO INARRESTABILE

L’esodo massiccio travolse le guardie di frontiera e tutte le previsioni vennero  smentite quando nella sola giornata del 17 settembre 1943 si rovesciarono in territorio elvetico ben 10.000 fuggiaschi, isolati o a gruppetti, raccoltisi nelle vicinanze del confine, aiutati, in qualche caso, a  passare attraverso la rete addirittura dagli stessi finanzieri. Il 14 settembre 1943 la studentessa ventiduenne Leila Levi, sfollata a Marchirolo, con il padre Alfredo e la mamma Ida sconfinarono da Cremenaga, guadando il fiume Tresa in tarda serata, con la collaborazione di una guida che venne retribuita con 15.000 lire. Quattro giorni dopo vi passò anche l’industriale fiorentino Nino Donati, con l’aiuto di un contadino del luogo. Il giornalista e scrittore Dino Segre, dopo essere stato ospitato con la famiglia presso don Piero Folli a Voldomino, entrò in Svizzera il 16 settembre, poche ore prima della decisione del Consiglio federale di chiudere la frontiera. Il 21 settembre 1943, da Fornasette si verificarono gli sconfinamenti dei veneziani Gustavo ed Elisa Bacchi, sfollati a Colmegna, seguiti a poche ore di distanza da Schulem Nadelreich e dalla moglie Regina, ebrei polacchi originariamente residenti in Germania. Da solo, da Fornasette, il 25 settembre 1943, entrò in Svizzera lo studente in legge Saverio Tutino, «fuggito per motivi politici», avendo favorito «la distribuzione e la divulgazione della stampa antifascista».  Il 28 novembre 1943, da Dirinella, entrò in Svizzera per motivi politici Sergio Brusa Pasqué, organizzatore di gruppi studenteschi antifascisti nel Varesotto. Nell’ultima settimana di novembre espatriarono parecchi giornalisti ricercati, tra i quali Arturo Lanocita, capo cronaca al «Corriere», impegnato nell’attività pubblicistica antifascista, colpito da due mandati di cattura. Descriverà  lui stesso il suo espatrio dai monti sopra Luino. Tra ottobre e novembre 1943 il «piccolo terrore» investì anche i gerarchi fascisti che avevano provocato la crisi del regime il 25 luglio. In ogni provincia vennero istituiti tribunali speciali con il compito di giudicare coloro che avevano votato l’ordine del giorno Grandi. Uno di loro, Dino Alfieri, ex ministro della Cultura Popolare, il 24 ottobre 1943, cercò riparo in Svizzera attraverso un sentiero che da Dumenza conduce ad Astano. Il 23 ottobre 1943, da Porto Ceresio dov’erano sfollati, entrarono in Svizzera Giulia Segre coi figli Mario e Paola, gli avvocati Achille e Camillo Ottolenghi, quest’ultimo reo di essersi occupato a Casale Monferrato della ricostituzione del Partito liberale. Il 17 novembre 1943, dai monti sopra Dirinella, entrò l’avvocato Renzo Ravenna con la moglie Lucia e i figli Paolo, Donata e Romano, fuggiti in ottobre da Ferrara.  Dal Lago Maggiore, traghettato da un barcaiolo, giunse in Svizzera l’ingegner Renzo Ascoli di Livorno che nel successivo interrogatorio a supporto della richiesta di  accoglienza dichiarò di  essere  stato «testimone ad Arona di un massacro di Ebrei». Il 23 gennaio 1944, da Biviglione, nei pressi di Cremenaga, entrò in Svizzera Piero Chiara, cancelliere della pretura di Varese, inseguito da un ordine di arresto della polizia fascista, per essersi «chargé de faire disparaȋtre tous le portrais del M. Mussolini au Palais de Justice» di Varese (responsabile di [aver] fatto sparire tutti i ritratti di M. Mussolini nel Tribunale di Varese). 

 

I RESPINTI

Nel novembre 1943, un gruppo di giovani, fra i quali i collaboratori della DELASEM (acronimo di Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei)  e la signorina Pirani, guidati dal sacerdote don Gian Maria Rotondi, venne respinto alla frontiera svizzera, dopo aver fatto tappa a Voldomino. Con loro c’erano alcuni studenti italiani che non avevano risposto alla chiamata di leva della Repubblica Sociale Italiana. Massimo Teglio, responsabile della DELASEM, di solito per questi o altri fuggiaschi non ebrei, provvedeva ad apporre sui documenti il timbro «appartiene alla razza ebraica» perché gli svizzeri li accettassero, ma l’espediente adottato non ebbe esito positivo.
Il 25 novembre 1943, Augusta, Paola, Francesca Anserlick, catturate da Italiani a Pino Lago Maggiore, vennero deportate e uccise a Bergen Belsen e Auschwitz. A Porto Ceresio furono arrestati il 2 dicembre 1943 Wanda Lami, Emilia Rafael e Vittorio De Semoi, ebrei genovesi colti nel momento in cui stavano organizzando il passaggio in Svizzera. Per loro le carceri giudiziarie di Varese, Torino e il campo di smistamento di Fossoli segnarono le tappe intermedie prima della deportazione nell’inferno di Auschwitz, il 22 febbraio 1944. Il giorno successivo furono prelevati anche Ugo Segre ed il figlio Tullio che furono eliminati quattro giorni dopo l’arrivo al campo di sterminio. La responsabilità di questi arresti e dei mancati espatri è imputabile anche agli Italiani. Non è  sempre vero che «Italiani brava gente». In un libro intervista sulla loro deportazione, Liliana Segre e Goti Bauer raccontano la storia del loro arresto in provincia di Varese. L’espatrio in Svizzera veniva  organizzato talvolta da contrabbandieri che, sfruttando la manifesta fragilità delle loro vittime, le ricattavano, le derubavano e le consegnavano ai loro aguzzini. I destini di Liliana Segre, precedentemente respinta dalle autorità elvetiche insieme al  padre Alberto,  e di  Goti Bauer hanno molto in comune: entrambe ebree, entrambe arrestate sul confine con la Svizzera mentre cercavano di fuggire dalla persecuzione dovuta all’inasprimento delle leggi razziali del 1938, dopo la creazione della Repubblica di Salò, entrambe detenute nel carcere di Varese, entrambe sopravvissute all’orrore di Auschwitz, entrambe testimoni della shoah. Liliana Segre fu arrestata a Selvetta di Viggiù il 23 dicembre del 1943, Goti Bauer a Cremenaga, il 2 maggio 1944. A determinare la tragica svolta al loro destino furono degli italiani: i militari che le arrestarono e i «passatori» varesini che, anziché portarle in salvo oltre il confine, le  tradirono e  le vendettero ai Tedeschi. I loro beni furono confiscati e mai più restituiti. Liliana Segre e Goti Bauer hanno raccontato questa storia nel libro intervista «Come una rana d’inverno» (Tascabili Bompiani) della giornalista Daniela Padoan. Unite da uno stesso destino, riuscirono però a sopravvivere alla criminale follia nazista, ma le loro famiglie vennero trucidate nelle camere a gas e bruciate nei forni crematori. Elsa Waktor, dopo un deplorevole respingimento alla frontiera elvetica, venne arrestata il 26 ottobre 1943 a Luino. Tradotta a Milano, fu deportata ad Auschwitz il 6 dicembre 1943 dove morì. Il padre di Elsa, Enrico, sua madre Regina Steinitz, anche loro respinti dalla Svizzera, vennero condotti nelle carceri di S. Vittore. Dopo una serie di pestaggi e sevizie, Regina fu deportata ad Auschwitz dove giunse il 28 ottobre 1944 e immediatamente selezionata per la camera a gas. Enrico invece fu destinato al campo di transito di Bolzano-Gries dove rimase fino alla resa dei nazisti, riuscendo miracolosamente a salvarsi.  Tra i passatori, come s’è detto, c’erano anche delinquenti occasionali che, pur non essendo dediti al tradimento sistematico, abbandonavano deliberatamente le loro vittime nelle mani dei fascisti e dei Tedeschi, con cui erano collusi. Lucravano due volte e spesso con larghi margini di guadagno, prima con il prezzo pattuito per l’accompagnamento al confine e una seconda volta con la riscossione della taglia denunciando i poveri malcapitati ai loro persecutori. È il caso di Agata Herskovitz, una ragazza ebrea d’origine cecoslovacca di appena vent’anni. Il 1° maggio 1944 con il padre e il fratello era quasi giunta al confine di Cremenaga. Nel momento in cui avrebbero dovuto sollevare la rete, gli accompagnatori emisero un fischio: si accese una luce nella casermetta, ne uscirono i militari della finanza e li arrestarono. Anche Elena Kugler, la madre e le sorelle Gisella e Maddalena,  il 2 maggio 1944, furono consegnate da un doppiogiochista di Cremenaga ai Tedeschi. Maddalena e la madre furono soppresse ad Auschwitz, il 23 maggio, lo stesso giorno del loro arrivo. Elena e Gisella furono invece liberate nel gennaio 1945. Le ricognizioni storiche effettuate a guerra finita, sulla scorta della copiosa documentazione d’archivio disponibile, rivelano uno scenario di abiezione e di viltà inimmaginabili. In circostanze come queste, uomini di grande spessore mostrarono tutta la loro grandezza nel prestare aiuto alle vittime innocenti di un regime crudele e liberticida. Sull’altro versante si collocano però branchi di sciacalli che specularono sulla miseria altrui, mossi unicamente dal loro interesse materiale. In proposito, mi sembra quanto mai  significativa la testimonianza di Goti Bauer: «Qualche anno fa sono andata a Cremenaga a fare la mia testimonianza per il film “Memoria”; un anziano signore del posto mi ha detto: “Lo vede quel quartiere, tutto pieno di case nuove? Lo hanno costruito loro, con i vostri soldi”»

                                                                                                          Emilio Rossi